venerdì 15 maggio 2015

Tutto il vuoto intorno a noi

20 maggio 2002. Giangiorgio Pasqualotto è nato a Vicenza nel 1946 a da 25 anni insegna Storia della filosofia all'Università di Padova. Ha collaborato con diverse riviste, tra le quali Angelus Novus, Contropiano, Nuova Corrente, Aut aut, Il centauro, Paramita, Simplegadi, Paradosso, Eranos jahrbuch, Oikos. Nel 1993 è stato tra i fondatori, a Venezia, del centro Maitreya per lo studio della cultura buddhista.

Ha tenuto più di trecento conferenze in Italia e all'estero. Si dedica al pensiero orientale da almeno vent'anni e, tra l'altro, ha pubblicato "Il tao della filosofia. Corrispondenze tra Oriente ed Occidente" (1989) e "Illuminismo e illuminazione. La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha" (1997).


Un percorso infinito, dove è più importante il provare che non il risultato. Durante la sua formazione ha scoperto l'importanza del gesto, dell'azione e, quindi, dell'arte, in quanto azione allo stato puro. Ma un'arte ridotta all'essenzialità, operazione in cui il Giappone è maestro. 


Essenzialità non tanto nel contenuto reale (minimalismo), ma nel modo, nel contenuto metafisico, nell'escludere un ragionamento preliminare di tipo filosofico.


Pasqualotto ha fatto esperienza a Cylon, in Thailandia e in Giappone, conoscendo artisti-artigiani di varie discipline. Tutti cercavano di realizzare un'azione il più possibile elementare. Un esempio su tutti: la ceramica raku, la tecnica più povera che esista, ma che viene utilizzata nella più splendida delle arti, la cerimonia del tè.

Ospite malsopportato del pensiero occidentale, il nulla si mostra in Oriente in molteplici forme. 


Tra l'idea di vuoto che esiste in Occidente e quella che esiste in Oriente non vi è nessuna relazione. E' questo l'elemento della ricerca di Pasqualotto che siamo andati ad estrapolare dai libri Estetica del vuoto (1992) e Yohaku (2001):

Il vuoto come siamo abituati a pensarlo noi, confluisce nel nichilismo. Mentre dall'altra parte è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Il vuoto in questo senso è il massimamente pieno. Questa è la grande idea che ha avuto il buddhismo. È il punto che lo fa incontrare con il taoismo in Cina e produce lo zen."(1)

L'anatta (l'insostanzialità) è il concetto con cui il buddhismo elabora la sua idea di vuoto, la cui potenza si può vedere soprattutto nell'arte. Un esempio è la tecnica del bonsai:

Un bonsai non è qualcosa di autonomamente definito, la sua potenza si manifesta grazie alla forma vuota che gli sta attorno."(2)

Gli occidentali sono abituati a vedere il bonsai come una costrizione che snatura l'albero, ma per Pasqualotto è più che altro una disciplina che non si spinge mai oltre i limiti, anzi si autolimita perché è solo l'eccesso di costrizione che porta il ramo a spezzarsi o a morire, ma anche l'eccesso di permissivismo è da considerarsi negativo, in ogni cosa.
 

Stare sul limite, invece, aiuta a vedere meglio da entrambe le parti e a evitare appunto l'eccesso, il prevalere di una parte.
 

Nel pensiero orientale, l'estetica sta alla base dell'etica, non è a sé stante. Ciò può risultare pericoloso solo se si è incapaci di darsi una disciplina, di impedire che la forma abbia il sopravvento su tutto.

Pasqualotto sembra dare man forte a Tanizaki, che vedremo più avanti, nella sua lotta alla modernità quando dice:

 [...] ricordo che il vecchio Nedham smentì con i suoi studi il luogo comune che la Cina antica fosse ascientifica, antitecnologica. In fondo tutta una serie di invenzioni, anche tecniche, nascono a Oriente. Ma lì l'uso della tecnica era completamente diverso. Pensi alla bussola. Può essere utilizzata per navigare, per pescare, per non perdersi e può essere usata per scoprire nuove terre. Noi abbiamo fatto la seconda cosa, loro la prima. Così fu anche per la polvere da sparo. Loro facevano i fuochi artificiali, noi gli archibugi."(3)
Il vuoto non è il nulla, il non-essere. L'autore analizza le fonti taoiste e buddhiste alla ricerca di una possibile definizione del vuoto, ma scopre che il vuoto è in realtà un non-concetto, che si chiarisce soltanto con l'esperienza, nella meditazione, e difficilmente potremo capirlo senza sottoporci personalmente alla pratica meditativa.

Il Giappone ha fatto del vuoto indiano e cinese un vuoto molto più fruibile come arte. 



L'affermazione "mare del nulla" è la cosa più bella che si può dire di un giardino di pietra. 

Attraverso questi libri si potrà capire come le culture che si basano sul vuoto siano state da sempre culture all'avanguardia nell'etica.

Pasqualotto vuole farci superare lo sconcerto che molti occidentali provano di fronte alle arti tradizionali giapponesi, delineando l'esperienza del vuoto che ne sta alla base: la cerimonia del tè, la pittura ad inchiostro, la poesia haiku, l'ikebana, i giardini di pietra, il teatro nou. 



Andando alle radici dell'esperienza del vuoto si scopre che essa non emerge da riflessioni teoriche, ma da una pratica di meditazione che può realizzare condizioni di vuoto produttivo nella mente, nel cuore e nel corpo non solo dell'artista, ma anche di chi ne apprezza le opere.
 

Il vuoto è inscindibile dal pieno e sta alla base di tutte le cose. E' il vuoto, nel senso più materiale del termine, che ci permette di vivere e usare ogni bene, anche nella società moderna, che sembra così poco avvezza a concetti estetizzanti e metafisici. Tutte le arti giapponesi coccolano il vuoto in quanto porta con sé un guadagno di estetica e un accrescimento culturale.
 

Nell'arte giapponese si tende sempre a sottrarre qualcosa, così come la vera cultura è sottrazione di nozioni dal cervello e non accumulo. Il giardino zen non è un semplice esercizio di stile, si coltiva prima nella mente, dove diventa occasione di purificazione.
 

In Occidente un tale modo di procedere è limitato a poche grandi figure:
Io intendo scultura quella che si fa per mezzo di levare, ché quello che si fa per via di porre è 

simile alla pittura."(4)
 

La parola giapponese yohaku è composta da "resto" e "bianco", quindi lo spazio vuoto, l'essenziale, il non destinato a sparire, ciò che resta dopo che è stato tolto tutto ciò che può essere tolto. E' proprio nel minimum, nell'abissale semplicità del qui e ora, che con più potenza vacilla il senso codificato delle cose. Non è un nulla conclusivo, stato di inerzia e di inesistenza, ma un nulla originante, stato germinale della realtà.

A questa potenza fa da contraltare il depotenziamento dell'io, che toglie enfasi al soggetto creatore. E' proprio ritraendosi che l'artista riesce a produrre al meglio, in una realtà che già lo comprende, lo ingloba e che è profondamente segnata dalle qualità dell'insostanzialità (anatta) e dell'impermanenza (anicca), in cui tutte le cose sono transitorie e intimamente interdipendenti.


Il pittore giapponese Ike no Taiga (XVIII secolo) diceva che "disegnare uno spazio bianco in cui non sia raffigurato assolutamente nulla" è sicuramente l'impresa più difficile per un artista, perché non è facendo nulla che si ottiene il nulla, non è astenendosi dall'agire che si può evocare il vuoto. L'irrappresentabile è più visibile nel rappresentato quando questo è imperfetto, inadeguato a simboleggiare il Tutto, l'assoluto da cui proviene. La cosa stessa è l'Idea, la perfezione è qui e ora, perché il mondo è semplicemente così com'è. Nel taoismo e nello zen non esiste una frattura metafisica: il trascendente non ha altro spazio-tempo per manifestarsi se non il contingente.


La nozione di vuoto (shunya) non è vacuità nel senso difettivo occidentale, ma condizione di possibilità, un potenziale. Il vuoto è dinamico, pieno di possibilità in procinto di realizzarsi.
 

Anche il ruolo giocato dalla corporeità viene rivalutato. Il corpo non è soltanto il luogo ove si manifesta l'assoluto, ma è anche il mezzo per raggiungerlo, attraverso pratiche come lo yoga. Per arrivare ad agire sulla mente, che è un'entità sottile e sfuggente, è meglio cominciare dal corpo. Nessuna condanna o mortificazione, dunque, delle pulsioni, dei desideri, degli istinti: la questione è semmai quella di ricondurre gli aspetti sensibili-materiali alla loro origine, alla fonte dalla quale prendono senso. E' superata quindi la dicotomia tra anima e corpo, spirito e materia. Inoltre, non è mai il singolo, elemento isolato, ad essere importante, ma la qualità dei rapporti, delle interconnessioni che esso instaura con i suoi omologhi.

Il preteso immobilismo della tradizione orientale è soltanto un luogo comune. Basta guardare l'architettura giapponese per accorgersi che tutto è dinamismo e senza nemmeno bisogno di enfasi, come se questo concetto fosse da sempre proprio dell'edificio. Lo spazio è fluido e governato dall'asimmetria che regna anche nella natura. L'edificio e il giardino si valorizzano a vicenda e sono articolati in stretta relazione; il giardino asseconda la disposizione delle costruzioni, le quali ne incorporano la vista rendendola uno degli elementi architettonici. Le pareti scorrevoli permettono di modificare a piacere gli ambienti, creando una dialettica compenetrazione dello spazio interno con quello esterno o, se si vuole, tra cultura e natura. Sono presenti anche qui dei confini, dei limiti, come nelle nostre case, ma si tratta di una veranda che circonda la costruzione; uno spazio attraversabile, di transizione, che finisce col mettere in rilievo un tutto unitario, seppure articolato.


Forse capirete ancora meglio se riuscirete a richiamare alla mente l'immagine di un torii, l'elemento della cultura religiosa shintoista che più simboleggia come l'intera natura sia da considerarsi alla stregua di un tempio. Il torii in sé non è altro che una semplice trabeazione in legno, composta da due stipiti e due architravi, collocata in uno spazio aperto per segnare il confine tra due zone qualitativamente differenti di territorio. Una porta che non introduce in nessuna stanza, ma che semplicemente incornicia la natura come fosse un quadro, mostrando l'ingresso per un sentiero di meditazione che porta al Tutto.


Se la bellezza nell'estetica della tradizione orientale si impone da sola senza bisogno del creatore come in Occidente, significa che tale estetica non è, appunto, una teoria della bellezza, bensì l'attività sensibile di mettere in forma l'esperienza.


Il ponte Shirakawa nel giardino della villa di Katsura è formato da pietre grezze disposte a distanze asimmetriche l'una dall'altra e ad altezze irregolari. Bisogna percorrerlo lentamente, attenti a dove si mettono i piedi. Come se ci spingesse a meditare praticamente su che cosa significa l'andatura nell'interezza della sua dimensione psicofisica, come se lì su quel ponte fossimo costretti ad imparare di nuovo a camminare.


Non siamo indotti soltanto all'attenzione verso la forma, ma anche indirizzati verso una forma dell'attenzione: percorrere un ponte diventa un esercizio spirituale.


E in una natura pensata come interamente pervasa dallo spirito, è immediato passare dall'attenzione verso le cose inanimate all'attenzione verso l'altro essere vivente. Ma allora tutto ciò significa che l'estetica della tradizione culturale giapponese è una disciplina di vita, un'arte del vivere. L'estetica del vuoto trova il suo fondamento in un'etica dell'attenzione. Agli altri, all'Altro.


Ovviamente non si vuole affermare che una cultura sia giusta e l'altra in errore. L'idea che deve nascere da questo discorso è proprio la mancanza di opposizione tra Oriente e Occidente, che sono come il giorno e la notte.



Note

1. Cfr. Gnoli, Antonio. Il mondo dove l'estetica è alla base dell'etica. La Repubblica, 9 dicembre 2001.
2. Ibidem.
3. Ibidem.
4. Michelangelo Buonarroti, in una lettera del 1550. Anche se, in verità, per lui lo scopo era liberare la figura imprigionata nel blocco di pietra, mentre per i giapponesi è creare un equilibrio tra la presenza e l'assenza di pietra nell'aria, è costruire per delimitare lo spazio, cioè il vuoto. Antoine de Saint-Exupery ha detto invece che "la perfezione (in un progetto) si ottiene non quando non c'è altro da aggiungere, ma quando non c'è altro da togliere". Klee va alla ricerca della cosa che è "al di là dell'apparenza", ossia della "comune radice terrestre". Malevic realizza il "quadrato bianco su bianco", che buca lo spazio pittorico nella direzione del "puro spazio originario". Secondo una sentenza leopardiana "tutto è nulla" e non vale nulla e va a finire nel nulla. Il nulla è l'anima segreta delle cose. Fragili ed effimere, le cose sono condannate al nulla, ma nello stesso tempo dal nulla salvate ossia restituite a noi per quello che sono: degne di essere amate in quanto mortali. Cfr. Givone, Sergio. Il nulla, ciò che resta dopo aver tolto tutto. L'Unità, 20 ottobre 2001.

Bibliografia

Carboni, Massimo. Tra estetica del vuoto e etica dell'attenzione. Il Manifesto, 20 Aprile 2002.
Givone, Sergio. Il nulla, ciò che resta dopo aver tolto tutto. L'Unità, 20 ottobre 2001.
Gnoli, Antonio. Il mondo dove l'estetica è alla base dell'etica. La Repubblica, 9 dicembre 2001.
Pasqualotto, Giangiorgio. 2002. Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d'Oriente. Marsilio, Venezia.
Pasqualotto, Giangiorgio. 2001. Yohaku. Forme di ascesi nell'esperienza estetica orientale. Esedra.


Massimiliano Crippa
 

Da: http://www.nipponico.com/dizionario/v/vuoto.php
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/vuoto.htm 

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